ECONOMIA E SOCIETA'
Le villae, centri di produzione
agraria e luoghi di villeggiatura
Il territorio sabino, per la sua vicinanza con
Roma e per la sua fertilità, celebrata da Varrone, fu fin dall'età
repubblicana costellato di villae, strutture complesse destinate ad
un duplice scopo, produttivo e ricreativo.
La natura polifunzionale della villa rustica viene definita nello stesso
Varrone in un brano del De re rustica (III, 2,1-16), in cui vengono
messe a confronto le residenze urbane, ricche di tesori e di raffinatezze,
e le residenze di campagna, pur senza escludere che in alcuni. casi,
come presso la villa di Quinto Assio, celebre per avere ospitato Cicerone
ai tempi della contesa giudiziaria con i Ternani a causa delle esondazioni
del Nera, conseguenza indiretta della cava Curiana, le villae rusticae
potessero essere lussuose non meno delle domus di città.
Generalmente, la struttura della villa rustica si articola in una pars
urbana, residenziale, destinata ad accogliere in maniera confortevole,
se non addirittura raffinata, il proprietario ed i suoi ospiti, ed in
una pars rustica, che costituisce la vera e propria azienda agricola.
La pars urbana constava di un appartamento invernale e di uno
estivo.
Nella zona utilizzata durante la stagione fredda, i cubicula,
le camere da letto, dovevano essere orientate ad Est, mentre i locali
di soggiorno (triclinia, tablinum, oeci, diaetae) dovevano essere
disposti ad Ovest. L'appartamento estivo doveva essere orientato in
senso inverso, per evidenti ragioni termiche e d'illuminazione.
In entrambi i casi, i bagni dovevano essere disposti a Sud/Est.
La pars urbana della villa era decorata con mosaici e pavimentazioni
in opus sectile.
La pars rustica comprendeva gli alloggi per gli schiavi (cellae familiae
per gli schiavi non legati, ergastula per gli schiavi incatenati, che
svolgevano i lavori più duri), l'infermeria (valetudinarium),
i bagni (balnea) e ovviamente le stanze (cellae) per il
massaro, che sorvegliava gli schiavi e per l'amministratore, che sorvegliava
a sua volta il massaro.
La culina, il vasto ambiente della cucin , era pertinenza della pars
rustica.
Al di là di essa, si articolavano nella cohors magazzini e cantine:
gli horrea erano i ripostigli degli attrezzi da lavoro, la cella olearia,
cantina per l'olio, era spesso annessa al trapetum, il frantoio
con le vasche di pietra e le macine, così come la cella vinaria,
cantina per il vino, era annessa al torcular, il locale in cui
era il torchio.
Non potevano mancare furnus e pistrinum, il forno ed il mulino,
dal momento che l'azienda agricola era del tutto autosufficiente.
Ben orientate e protette da muri a secco, che assicurassero il calore
d'inverno ed il fresco d'estate erano le stalle, bubilia per i buoi,
ovile per le pecore, hara per i maiali.
Ai tradizionali tipi di allevamento si univa spesso la pastio villatica,
l'allevamento di fattoria, suddiviso in ornithones (uccelli), leporaria
(animali selvatici), piscinae (pesci).
Le deiezioni degli animali erano raccolte negli stercilina, le concimaie
poste fuori dallo spazio abitato della villa.
L'area, l'aia in cui si battevano i cereali, era protetta da un nubilarium,
una tettoia per mettere le granaglie al riparo dalla pioggia.
L'hortus ed il pomarium (orto e frutteto) erano insieme preziosi spazi
di produzione e luoghi di ricreazione propter voluptatem.
La funzione economica delle
Abbazie
Secondo la tradizione, nel 529 Benedetto da Norcia
fonda la comunità di Montecassino ed avvia la pratica di un moderato
ascetismo, che valorizza le attività pratiche accanto alla preghiera
ed alla contemplazione.
Da questa positiva esperienza deriva l'Ordine
Benedettino e l'istituzione delle abbazie, che si diffusero e si organizzarono
inizialmente nel territorio come centri di produzione agraria, acquisendo
nei secoli una crescente importanza politico-amministrativa.
In territorio sabino, nella seconda metà del VI secolo fu fondato
un eremo da San Lorenzo Siro.
Nel 592, i Longobardi invasero la zona e distrussero il cenobio sulle
falde del monte Acuziano.
Il monastero venne ricostituito un secolo più tardi da un gruppo
di Benedettini che ottennero la protezione di Faroaldo II, Duca di Spoleto.
Intanto, nel 735 l'abate di Farfa Lucerio promuoveva la fondazione di
una nuova abbazia intitolata a San Salvatore nel pressi di Longone:
anche questo insediamento prosperò, infeudandosi nel territorio
attraverso numerosi castelli.
Quando la politica longobarda si oppose però al Papato, i Benedettini
si schierarono apertamente al fianco del papa e di Carlo Magno, intervenuto
a sostegno della Chiesa.
L'abbazia di Farfa fu insignita da Carlo del titolo di Abbazia Imperiale,
affrancata da ogni obbligo nei confronti dei rappresentanti del potere
temporale e religioso.
Per oltre un secolo, l'abbazia prosperò sotto la tutela dell'impero.
Quando i Saraceni invasero l'Italia, Farfa fu assediata per sette lunghi
anni e distrutta.
I monaci avevano provveduto però a diramarsi verso Roma, Rieti
e le Marche, espandendo così la loro area di influenza.
L' abbazia fu ricostruita ad opera dell'abate Ratfredo e riformata secondo
l'ordinamento cluniacense dall'abate Ugo.
In questo periodo, ebbe un notevole incremento lo scriptorium del monastero,
presso il quale furono trascritti e conservati preziosi codici e fu
compilato il Regesto, strumento di fondamentale importanza per la ricostruzione
degli avvenimenti storici dell'epoca drammatica dell'alto medioevo.
Dopo il concordato di Worms, l'Abbazia che era rimasta fedele alla sua
politica filoimperiale decadde lentamente, assoggettandosi all'autorità
papale.
A partire dal XIII secolo, le sue sorti furono legate alla Santa Sede.
Nel 1255, nei pressi di Contigliano, venne fondata l'abbazia cistercense
di San Pastore: qui i monaci s'impegnarono nella bonifica del territorio
incrementando lo sviluppo dell'agricoltura e raggiungendo uno stato
di prosperità testimoniato dalle Bolle dei papi Urbano IV e Clemente
IV.
L'abbazia divenne più tardi una Commenda.
Dal 1580 fino alla dominazione napoleonica, l'abbazia e la tenuta di
San Pastore fu affidata ai canonici Lateranensi.
Fu definitivamente abbandonata all'inizio dell'Ottocento.
Le Corporazioni delle Arti
Gli Statuti Civici reatini elencano dettagliatamente
i titoli delle Arti: Ars Iudicum cum Militibus, et nobilibus; Ars
Notariorum; Ars Mercatorum; Ars Medicorum; Ars Spetiariorum; Ars Aurificum;
Ars Lanae; Ars Pellizariae; Ars Calzolariorum; Ars Sartorum; Ars Ferrariorum;
Ars Lignariorum; Ars Tabernariorum; Ars Hostium; Ars Merzariorum; Ars
Piscatorum; Ars Forbitorum; Ars Vigneriorum; Ars Bufulcorum; Ars Muratorum,
& Rumpitorum; Ars Barbariorum, & Tramutatorum; Ars Bandariorum,
Capellorum, & Funariorum; Ars Tornatorum; Ars Pectinatorum, Tegularum,
& Figulorum; Ars Pullariorum, Picecatorum, & Ollariorum; Ars
Vectoralium; Ars Iumentariorum, & Pastorum; Ars Macellariorum.
Gli stessi titoli vengono enumerati e più dettagliatamente ne
vengono indicati le peculiarità, i diritti ed i doveri negli
specifici Statuti delle Arti emanati nel luglio dell'anno 1474.
Qui le Arti vengono raggruppate secondo un criterio di classificazione
inteso come funzionale ad una gestione più rapida e corretta
delle varie competenze attribuite ai
Consoli: pertanto, si individuano per ogni gruppo di Arti due consoli,
un camerario ed un notaio, e si dettano le norme riguardanti le loro
cariche.
Sono dunque individuate come Arti maggiori l'Ars mercatorum, l'Ars iudicum,
l'Ars Calzulariorum ed infine l'Ars agri culture, assumendo ciascuna
un ruolo preminente rispetto agli specifici ambiti di attività:
le imprese commerciali, le professioni liberali, l'artigianato e la
produzione agraria.
I trentasette articoli che costituiscono la Tabula Capitulorum Consulum
Artium non si limitano ad ordinare e regolamentare i rapporti tra
i membri delle varie categorie di produzione e di scambio, ma garantiscono
attraverso una serie di ispezioni e di controlli il rispetto dell'igiene,
l'esattezza dei pesi e delle misure, salvaguardando così gli
acquirenti, "ut artes recte et bonafide et sine fraude fiant",
affinché le arti si svolgano con onestà e fiducia e senza
frode.
Ciascun artigiano è chiamato a svolgere la propria attività
secondo le regole del proprio mestiere, agendo al meglio di quel che
può e che sa, ed è soggetto al controllo dei Consoli delle
Arti.
Chi opera la mercatura, così come l'artigiano che deve approvvigionarsi
di materie prime, non può compiere acquisti se non da un mercante
o da un produttore iscritto a sua volta all'Arte in questione, in grado
quindi di garantire la validità della sua merce.
L'acquirente o il committente che avanza dubbi sulla liceità
del compenso richiesto da un artigiano può rivolgersi ai Consoli
delle Arti, che procederanno ad un arbitrato.
Così i pegni avranno una scadenza piuttosto rapida, per garantire
una celere risoluzione delle contese affidate al giudizio dei Consoli
delle Arti.
In questo modo, durante l'età comunale la città di Rieti
si dette un assetto economico e civile consono alle ambizioni derivanti
da un'economia prospera, in un territorio strategicamente importante.
Fiere e mercati
Fin dall'età feudale, caratterizzata da
un'economia di sussistenza, si affermò in Europa ed in particolare
in Francia ed in Italia una particolare forma di mercato che riprendeva
un'antica tradizione, associando ai pellegrinaggi presso particolari
luoghi di culto occasioni di mercato e di scambio di prodotti di difficile
approvvigionamento.
Già in età romana, presso i templi delle dee autoctone
Feronia e Vacuna si erano svolte fiere e mercati, accanto ai rituali
attestati da Strabone, che descrive i fedeli di Feronia impegnati a
percorrere su carboni ardenti la via che conduceva al tempio, mentre
Livio rammenta che là avveniva il rituale di affrancamento degli
schiavi.
Durante l'alto medioevo, gli stretti rapporti tra gli imperatori carolingi
e l'Abbazia di Farfa fecero sì che le grandi fiere della Champagne
avessero il loro corrispettivo in Sabina.
Qui, oltre alle spezie provenienti dall'Oriente ed ai tessuti pregiati
di fattura francese e fiamminga, venivano vantaggiosamente venduti o
scambiati i prodotti locali.
Occasioni particolari divennero le fiere del bestiame, poste sotto la
protezione dei Santi patroni dei villaggi e regolate dalle esigenze
dell'allevamento e della riproduzione.
Anche Rieti cominciò ad avere le sue fiere, in corrispondenza
alle festività religiose di maggior rilievo.
Il capitolo 58° del I Libro degli Statuti Civici tratta De nundinis
fiendi de mense Augusti, stabilendo che la fiera dovesse avere la durata
di dieci giorni, che avrebbero dovuto essere tempestivamente avvisati
tutti i mercanti reatini per il tramite dei Consoli delle Arti, dal
momento che per il periodo di apertura della fiera era vietato qualsiasi
altro commercio, "et si dicto tempore Nundinarum aliquis venderet
aliquid nisi in ipsis Nundinis pro qualibet vice puniatur in quatraginta
soldis uno dumtaxat excepto. Et Potestas, & Capitaneus sifuerit
negligens puniatur in centum libris de eorum salario. Et habeant quartam
partem poenae a dictis artificibus, & mercatoribus qui venderint
ad Nundinas non teneantur solvere aliquam Gabellam in eundo, stando,
& redeundo, & veniendo Passagium durantibus ipsis Nundinis".
E' evidente l'intento di incrementare il mercato e lo scambio commerciale,
perseguito dal legislatore da un lato attraverso norme vincolanti, dall'altro
attraverso incentivi fiscali.
La vigilanza durante i dieci giorni di mercato, non a caso fissati in
occasione della festività dell'Assunta, ma soprattutto a conclusione
del raccolto di luglio, era direttamente affidata al Capitano, dal momento
che la fiera si svolgeva nella piazza del Leone, prospiciente al palazzo
di città.
Al grande mercato di metà agosto si aggiunsero alla fine dell'autunno
la fiera di Santa Barbara, che è ancora parte integrante delle
tradizioni locali, e la fiera del bestiame che si svolgeva in occasione
della festa di Santa Lucia, mentre nel mese di giugno si teneva e si
tiene a tutt'oggi la fiera di Sant'Antonio.
Le colture tradizionali
La fertilità dell'ager reatinus
derivata dalla bonifica del territorio lacustre ad opera del console
Manio Curio Dentato e celebrata orgogliosamente nel de re rustica da
Marco Terenzio Marrone, fa della piana reatina un luogo di produzione
intensiva di ortaggi e cereali, che costituiscono i cespiti primari
dell'economia tradizionale.
L'erudito reatino Loreto Mattei nei suoi sonetti dialettali cita tra
i motivi di vanto della sua amata città l'essere "nobbile
e jentile / abbonnanziosa dde cipolle e rape", ma descrive
pure nell' "Erario reatino" le tradizionali forme di
devozione con cui contadini ed allevatori di bestiame rendono grazie
a Dio per l'abbondanza del raccolto e la fecondità del gregge:
"... non voglio tacere di alcune usanze antiche popolaresche
proprie di questo paese, ma risultanti in vantaggio e divozione dei
luoghi pii come è l'offerta che fa la Compagnia degli Agricoltori
delle primizie della ricolta con portar in mostra per la città
con pompe di torce e di suoni un gran fascio di spighe artificiosamente
fabbricato e di ricchi fregi adorno, sostenuto sulle spalle di quattro
uomini che poi con quantità di moneta offeriscono alla cappella
della compagnia del Buon Gesù in S. Domenico il principio di
Luglio. E simile è anco l'usanza della Compagnia dei Bifolchi
nella festa di Sant'Antonio di Padova che parimente con quantità
di torce guernite tutte di gran monete d'argento, a suono di pifferi
e flauti conducono per la città in cavalcata molti bovi bardati
di belle valdrappe e pomposamente coronati a guisa di vittime con un
fanciullin tutto adorno cavalcatovi sopra quasi portano in trono l'innocenza
o pur rappresentando il Bambin Gesù ad ogni vociferazione del
nome di S. Antonio i detti giumenti ammaestrati si genuflettono, portandosi
poi ad esser benedetti alla chiesa di S. Francesco con offerir il donativo
alla cappella della confraternita di essa stessa".
Accanto alle colture alimentari, si sviluppa con successo la coltivazione
del guado, il cui nome scientifico è Isatis Tinctoria, utilizzato
per tingere dì azzurro le stoffe grezze prodotte nella zona.
Lungo il corso urbano del Velino erano numerosi tra il XVI ed il XVIII
i mulini per l'estrazione del guado, che richiedeva una lavorazione
piuttosto lunga e complessa.
L'abbondanza delle scorie e soprattutto la loro putrescenza avevano
indotto il legislatore a regolamentare negli Statuti Civici De distributione
aquarum cum adaequatur guadum (L. I, cap. 70), controllando che
i mulini a guado fossero sempre disposti a valle rispetto al mulini
che producevano farine alimentari.
L'industria del guado declina sul finire del XVIII secolo con la diffusione
dell'indaco, per avere una effimera ripresa durante la dominazione napoleonica,
quando il blocco continentale indusse la Francia a promuovere la ricerca
di validi sostituti dei generi coloniali.
La manifattura reatina allestita dal marchese Lodovico Potenziani fu
nominata con decreto imperiale Quarta Scuola Imperiale per l'estrazione
dell'indaco dal guado.
Il tramonto dell'astro napoleonico segnò il definitivo abbandono
di questa antica coltura.
L'industrializzazione
L'economia reatina, tradizionalmente legata al
lavoro dei campi ed alla produzione artigianale, si apre all'industrializzazione
solo dopo l'unità d'Italia e cerca di riscattarsi dal lungo ritardo
attraverso il tentativo di valorizzare proprio quelle potenzialità
e quelle risorse che la tradizione stessa poteva garantire: le prime
fabbriche, quelle che determinarono cambiamenti di lungo periodo, destinati
a riflettersi sull'assetto della società, furono dunque industrie
alimentari, come lo Zuccherificio, e manifatturiere, come la Supertessile.
La Società anonima per la fabbricazione dello zucchero, fondata
nel 1872, introdusse con successo nella piana reatina la coltivazione
della barbabietola da zucchero ed inaugurò il primo opificio,
che fu attivo però solamente per pochi anni.
Nel 1887, il progetto di industrializzazione nel settore saccarifero
fu ripreso con migliore fortuna da Emilio Maraini e Giovanni Potenziani,
tanto che lo Zuccherificio reatino incrementò in breve la produzione
migliorando le tecniche di raffinazione e garantendo un prodotto di
ottima qualità.
Lo Zuccherificio reatino è stato attivo per circa novanta anni,
e soltanto le difficoltà di collegamento viario, che implicavano
svantaggiosi ricarichi sui costi di trasporto, hanno reso opportuno
per la Società chiudere definitivamente gli impianti venticinque
anni fa.
Fino a quando, infatti, il trasporto di merci è stato affidato
essenzialmente alle ferrovie, la rete di collegamento tra la fabbrica
e la stazione è stata sufficiente a soddisfare le esigenze di
profitto della società.
La distanza di Rieti dalla rete autostradale e lo sviluppo del trasporto
su gomma ha invece indotto alla chiusura dell'antica fabbrica, il cui
complesso, che pure costituisce un esempio unico di archeologia industriale,
rischia il totale degrado.
L'altra grande fabbrica che ha caratterizzato la fase iniziale dell'industrializzazione
reatina è la "Supertessile" per la produzione della
seta artificiale, fondata dal barone Alberto Fassini secondo lo stile
imprenditoriale e paternalistico tipico del primo Novecento: accanto
al complesso della fabbrica, sorse infatti un intero quartiere industriale,
progettato per accogliere nel pressi della fabbrica i lavoratori e le
loro famiglie.
L'apertura della "Supertessile" produsse inoltre un fenomeno
di immigrazione dal Nord-Est, dal momento che fu necessario per l'imprenditore
provvedersi inizialmente di manodopera specializzata.
Furono numerosi coloro che, con le loro famiglie o individualmente,
raggiunsero Rieti dal Veneto.
Per le giovani operaie fu attivato un convitto, grazie all'impegno particolare
del vescovo di Rieti mons. Massimo Rinaldi.
La presenza delle due prime industrie reatine contribuì ad attivare
un processo di rinnovamento sociale ed economico destinato a seguire,
nel bene e nel male, le sorti del paese superando almeno la secolare
condizione di isolamento che ha caratterizzato tanto a lungo Rieti.