LE ORIGINI

Le divinità dell'Olimpo Sabino

L' antico popolo dei Sabini, stanziato in età preromana lungo la dorsale appenninica della penisola italica, è caratterizzato secondo gli eruditi latini Marco Terenzio Varrone e Plinio il Vecchio dal profondo spirito di religiosità, da cui deriva l'obbedienza alle leggi ed il rispetto della parola data: lo stesso nome di Sabini deriverebbe dalla radice indoeuropea - sab, che corrisponde al verbo greco sebestai (= venerare).
Come molti popoli dell'antichità, anche il popolo Sabino intese la religione come un sistema di credenze che poteva spiegare l'origine del mondo e l'ordine naturale delle cose, rispondendo attraverso il mito agli interrogativi in ordine alla presenza ed alla funzione dell'umanità in un processo divino, nel quale non si faceva riferimento ad un Essere Supremo concepito come creatore, ma ogni aspetto della vita e delle forze della natura veniva concepito come sacro e definito come divinità.
La religione degli antichi Sabini era dunque politeistica, ammetteva cioè molti dei immortali, ciascuno dei quali esercitava la sua protezione su uno o più aspetti del ciclo vitale degli elementi.
Il dio padre dei Sabini era Sabo, o Sanco, al quale erano eretti templi sulla sommità delle colline.
Poiché i Sabini erano agricoltori e pastori ed i territori in cui erano stanziati erano prevalentemente montuosi e collinari, ricchi di acque e ricoperti di vegetazione, assunsero particolare importanza le divinità fluviali o acquatiche e le divinità dei boschi, come Vacuna, più tardi associata alla dea romana Vittoria o Vesta, che veniva rappresentata come una donna dal seno nudo alla quale dei genietti alati porgevano delle fiaccole accese: i templi della dea Vacuna, tra cui è famoso quello di Cutiliae, si trovavano in prossimità di acque sorgive e presso di essi gli schiavi venivano affrancati.
Questo stesso rito veniva compiuto presso i templi della dea Feronia, la divinità che proteggeva le messi e più in generale soprintendeva alla riproduzione, come la dea greca Demetra o la romana Cerere.
Una divinità celebrata perché proteggeva le attività dei campi e della pastorizia era anche la dea Matura, tutelare delle prime ore del giorno, associata con l'Aurora.
Il re di origine sabina Numa Pompilio impose a Roma gli onori al dio Termine, nume tutelare dei confini, ed alla dea Fede, che vigilava sul rispetto dei patti.
Gradualmente, i Sabini si assimilarono ai Romani ed assunsero tutte le divinità del loro Olimpo.

 

I Sabini, inumatori ed inceneritori

Nel febbraio 1929, il mezzadro che coltivava a Camporeatino i terreni agricoli di pertinenza della chiesa di San Giovanni in Statua, lavorando la vigna, trovò casualmente alcuni frammenti di antiche suppellettili: scavi sistematici consentirono l'identificazione di una necropoli, da cui vennero riportati alla luce interessanti reperti archeologici databili all'età del ferro (IX sec. a.C.).
Tra questi, va segnalata per importanza e per integrità di conservazione un'urnetta cineraria a capanna, che documenta la presenza nel territorio sabino di una cultura dedita alla pratica dell'incenerimento.
Il manufatto fittile ha infatti la funzione di conservare le ceneri di un defunto, custodendole all'interno di un parallelepipedo che riproduce le forme di una casa dalle pareti squadrate, dal tetto a due spioventi, la cui porta d'accesso - collocata in facciata - è chiusa mediante un rudimentale, efficace chiavistello.
L'analisi della forma e della funzione della piccola urna di terracotta consente di attribuire al popolo sabino stanziato lungo le rive del lacus Velinus delle caratteristiche singolari, che riguardano sia l'organizzazione della vita sia il rituale di sepoltura dei defunti.
Gli antichi Sabini vivono in abitazioni modeste ma ben strutturate, costituite da pareti in muratura o intessute di pali e giunchi impastati di fango e malta, coperte da intelaiature di paglia incrociate a spioventi.
Tali abitazioni, che accolgono nuclei familiari numericamente modesti, sono presumibilmente costruite in agglomerati che possono definirsi come veri e propri villaggi.
La pratica dell' incinerazione è messa in atto dai popoli indoeuropei che intendono così sottrarre al disfacimento i resti dei cadaveri, riducendoli in cenere.
Le ceneri sono poi custodite in vasi sigillati (urne o canopi), che riproducono le sembianze dei defunti o delle loro abitazioni terrene, così da scongiurare la conservazione e la consegna della memoria del singolo individuo, ridotto ai minimi termini, all'eternità.
I popoli inceneritori hanno credenze religiose dominate dal senso della brevità della vita terrena e dall'aspirazione alla vita eterna.
I popoli inumatori, coloro cioè che seppelliscono i morti in tombe ipogee, sia individuali che collettive, restituiscono i cadaveri al ciclo incessante della natura, lasciando che si decompongano e che diano così luogo ad altre forme di vita vegetale ed animale.
Le tombe sotterranee, scavate nel terreno, sono in genere orientate lungo l'asse Est/Ovest, a simboleggiare la conclusione del cielo vitale dell'individuo che ripercorre il cammino apparente del sole.
Il defunto viene deposto nella tomba munito del corredo funerario, cioè con gli abiti e gli arnesi tipici della sua condizione (armi, se si tratta di un guerriero, gioielli e strumenti da cucito e tessitura, se si tratta di una donna, giochi di terracotta e d'osso se si tratta di un bambino).
Il viso e gli arti del defunto sono spesso cosparsi di terra ocra, il cui colore rossastro evoca la vita trascorsa e rappresenta un ultimo augurio di vita eterna.

 

La primavera sacra

Le antiche popolazioni di ceppo sabino, stanziate fin dall'età del ferro nelle regioni appenniniche dell' Italia mediana, praticarono per lungo tempo le attività primitive della caccia e della raccolta procedendo successivamente all'addomesticamento degli animali ed all'applicazione di rudimentali tecniche agricole.
Come è tipico dei popoli di natura, che vivono sfruttando le risorse dell'ambiente senza intervenire in alcun modo a controllarle e rinnovarle, anche i Sabini erano esposti alle mutazioni climatiche e soggetti a tutti i condizionamenti negativi che potevano derivarne: un inverno troppo freddo o un'improvvisa serie di temporali potevano infatti compromettere un raccolto, ripercuotendosi senza distinzioni su uomini ed animali, mettendone a repentaglio la sopravvivenza.
Nelle epoche più remote, i Sabini tentavano di scongiurare gli eventi, in caso di calamità naturali e di carestie, mediante il rituale del ver sacrum, la primavera sacra, che veniva praticato offrendo in sacrificio tutti gli esseri nati durante la stagione primaverile alle divinità della natura, che tutelavano l'avvicendarsi delle stagioni e dominavano la forza degli elementi.
Non è da escludere che il sacrificio riguardasse anche i neonati, e non comportasse soltanto l'offerta delle primizie dei campi e dei nuovi nati del gregge.
Gradualmente il rituale del ver sacrum venne a modificarsi, mantenendo il suo significato simbolico ma assumendo una funzione più complessa, in forma meno cruenta: si mantenne infatti l'offerta delle primizie agli dei, ma ai sacrifici umani si sostituì un meccanismo che individuava una leva di giovani destinati ad abbandonare i loro villaggi per colonizzare altre terre.
In questa maniera, si otteneva lo scopo immediato di ridurre numericamente la popolazione e si espandeva l'arca d'influenza sabina includendo nuovi territori.
Al giovani designati come fondatori di una colonia, obbligati a compiere il sacrificio allontanandosi dalle loro famiglie per il bene della comunità, veniva assegnato un animale sacro che li avrebbe guidati nel viaggio: da questo avrebbero ottenuto guida e protezione e ne avrebbero derivato il nome.
Così, mediante il ver sacrum, dall'originario ceppo sabino si vennero a formare i Piceni, a cui era stato assegnato come animale-guida il picchio (picus) e si erano stabiliti nella zona orientale dell'Appennino mediano, gli Irpini, che avevano come animale simbolico il cinghiale (hirpus), stanziatisi nella zona centro-meridionale della dorsale appenninica, gli Equicoli, il cui animale totemico era il cavallo (equus), insediatatisi nella vallata intermedia fra il fiume Salto ed il Turano, i Vultures, che, guidati da un avvoltolo (vultur), dettero il nome alla regione del Volturno.

 

Il ratto delle sabine tra storia e leggenda

Secondo la tradizione, la leggendaria fondazione di Roma è caratterizzata da una sequenza di episodi dal forte significato simbolico: la nascita dei gemelli Romolo e Remo dalla giovane Rea (riconducibile all' etimo Reate) amata dal dio Marte, la loro travagliata infanzia - vengono abbandonati sul fiume Tevere, raccolti ed allattati da una "Lupa", vale a dire da una prostituta, che l'iconografia rappresenta con le sembianze dell'animale - e, non appena è stato tracciato il solco che delimita l'area della futura città, la ribellione di Remo e la sua uccisione da parte del fratello Romolo sono le drammatiche fasi che danno inizio alla storia della più grande potenza dell'antichità.
A queste azioni fa seguito il ratto delle Sabine.
Secondo la tradizione, attestata da Varrone e da Tito Livio nelle loro opere antiquarie, ripresa da Virgilio nell' Eneide, Romolo ed i suoi compagni approfittarono dei ludi (giochi) in onore del dio Conso per invitare i Sabini e rapire le loro donne.

Questo atto di violenza ed inganno fu causa di un conflitto, che fu risolto grazie all'azione pacificatrice delle stesse donne vittime del rapimento.

La leggenda trova parziale conferma nei rituali complessi del ver sacrum, che comportano l'allontanamento di una leva di giovani destinati a fondare una loro colonia.

All'atto dell'insediamento deve necessariamente seguire la formazione di nuovi nuclei familiari in grado di dare vita alla comunità: la condizione di crisi economica che è alla base della primavera sacra impedisce ai giovani di prendere in moglie delle giovani donne offrendo alle loro famiglie i tradizionali doni nuziali e può dunque spiegare la necessità di ricorrere al rapimento per popolare il nuovo villaggio.
Secondo alcune diverse interpretazioni, invece, il ratto avrebbe avuto una funzione rituale ed avrebbe rappresentato una cerimonia arcaica, "ut more ferarum", come dice Orazio, caratteristica della comunità dei Sabini.
Sta di fatto che nei secoli successivi si sarebbe affermato il rituale nuziale tipico di Roma, strettamente legato alla tradizione sabina per i suoi legami con l'alimentazione: la confarreatio, il pasto rituale che gli sposi consumavano dividendosi la stessa ciambella di farro, un cereale povero, più antico del grano, coltivato fin sulle alture appenniniche abitate dai Sabini.

Anche se è impossibile definire quanto appartiene alla leggenda, quanto invece alla storia, è certo che fin dall'epoca della fondazione attraverso i legami matrimoniali la Roma delle origini strinse contatti significativi con i Sabini, passando attraverso le fasi del conflitto e della successiva condivisione dei poteri fra Romolo ed il sabino Tito Tazio, a cui seguì Numa Pompilio, anch'egli sabino, distinguendosi nell'attività di legislatore e moralizzatore dei costumi.

 

L'eredità sabina nella definizione dell'humanitas

Le discipline liberali, che durante il medioevo si organizzeranno nelle Arti del Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia), hanno origini remote: fin dagli ultimi tempi della Repubblica a Roma le prime tre arti costituivano il ciclo di studi tradizionale delle scuole di grammatici e di retori.
In età imperiale, prima della retorica e della dialettica s'imparava la litteratura, vale a dire la lettura e la scrittura, poi si studiava la grammatica, la geometria, la musica.
Questi studi vengono citati da Varrone con il nome di disciplinae, da Seneca come artes liberales, da Quintiliano come egkuklopaideia, ma ogni definizione rinvia alle precedenti, ben più remote nel tempo.
L'origine più antica ed attendibile del nucleo primario delle discipline enciclopediche risalirebbe infatti alla tradizione pitagorica, che fissa con Archita di Taranto le discipline del futuro Quadrivio (fr. 1 Diels).
All'importanza del numero come principio ordinatore, concetto di base della filosofia pitagorica, si associa l'interesse verso lo studio teorico della musica, soprattutto per quanto riguarda il campo dell'acustica.
All'epoca romana dunque egkuklopaideia costituisce la formazione di base necessaria per accedere ad ogni forma di cultura superiore.
Cicerone, fedele alla tradizione ellenica, distingue la puerilis institutio dalla politior humanitas, facendo riferimento ad un modello astratto dì cultura.
I sabini Marco Porcio Catone e Marco Terenzio Varrone tracciano invece vie pragmatiche per consolidare le conoscenze offerte dalle artes liberales.
Catone rivolge infatti preziosi ammonimenti ad Marcum filium, lasciando testimonianza dei precetti educativi messi in pratica da un padre nei confronti del proprio figlio, e documenta inoltre nel Carmen de moribus i valori a cui s'ispira.
Varrone compila invece una serie di manuali scientifici in cui sotto il titolo di Disciplinarum libri saranno riunite le sette discipline canoniche, a cui aggiunge lo studio della medicina e dell'architettura.
Il più celebre erudito dell'età repubblicana compone i Disciplinarum libri novem durante gli ultimi anni della sua vita, lunga ed operosa, opponendo allo spirito speculativo greco il senso della praticità romana.
Tale concetto di funzionalità della cultura è espresso chiaramente da Cassiodoro, a cui dobbiamo la conservazione di molti frammenti dell'opera didascalica varroniana: "Scire autem debemus, sicut Varro dicit, utilitatis alicuius causa omnium artium existisse principia", cioè dobbiamo essere consapevoli che tutte le scienze sono state fondate per l'utilità degli uomini.
I nove libri delle Disciplinae, trattazione delle arti liberali, furono portati a termine fra il 34 ed il 33 a.C. e costituiscono insieme la sintesi dei lunghi e complessi studi compiuti dall' eruditissimus Romanorum, il più dotto dei Romani, ed il suo testamento spirituale, a cui affida il conseguimento della virtus, fine ultimo di ogni scienza.

 

I Flavi nella storia di Roma

Dopo la deposizione ed il suicidio di Nerone, il principato vive un tragico periodo di instabilità: fra il 68 ed il 69, si susseguono ben tre personaggi alla guida dell'Impero.
Sulpicio Galba, eletto dal Senato, viene deposto ed ucciso dai Pretoriani che insediano Otone, mentre le truppe romane di stanza sul Reno acclamano imperatore Vitellio.
Lo scontro fra i due è inevitabile. Le truppe di Vitellio si scontrano a Bedriaco con l'esercito di Otone che, sconfitto, si uccide.
Nel frattempo, le legioni stanziate in Oriente proclamano imperatore il generale Vespasiano, che già dal 67 aveva guidato vittoriosamente l'esercito romano in Giudea.
Nel dicembre del 69, Vespasiano sconfigge a Cremona le truppe di Vitellio e viene riconosciuto dal Senato legittimo imperatore.
Con Vespasiano ha inizio la dinastia Flavia, che guiderà le sorti di Roma per poco meno di un trentennio.
Egli infatti governerà per dieci anni, fino alla morte che lo coglie nel 79 nella sua villa di Cutiliae. Fino all'81, gli succederà il figlio Tito, il valente artefice della conquista di Gerusalemme (70 d.C.), compianto dal senato e dal popolo romano per la sua straordinaria abilità e mitezza di governo. La dinastia Flavia si conclude con Domiziano, ucciso nel 96 in una congiura di palazzo.
Dopo l'esasperato culto della personalità imposto da Nerone e l'instabilità politica dell'anno dei tre imperatori, Vespasiano assume il potere mantenendosi, secondo la testimonianza dello storico Svetonio, clemente e semplice come un comune cittadino.
Già stimato per le sue capacità di amministratore e di stratega, Vespasiano ha però oscure origini familiari: costruisce perciò il suo carisma assicurandosi il consenso delle varie componenti sociali, immettendo nelle liste dei senatori e dei Cavalieri numerosi esponenti della borghesia italica ed extraitalica e promuovendo un'intensa attività di edificazione di opere pubbliche.
Il nome dei Flavi, e di Vespasiano in particolare, è tradizionalmente associato ad una serie di opere edilizie databili al I sec. d. C..
Nei pressi di Cutiliae gli scavi archeologici intrapresi a fine Ottocento, durati fra alterne vicende fino al 1979, hanno riportato alla luce le strutture murarie della villa di Vespasiano ed il vasto complesso termale le cui tecniche di costruzione muraria - opus mixtum ed opus reticulatum - confermano la datazione alla seconda metà del Isecolo.
A pochi chilometri di distanza, in direzione Nord-Est, l'età flavia ha lasciato la testimonianza del cosiddetto Ninfeo, un poderoso muro di costruzione articolato da nicchioni, probabilmente anch'esso facente parte dì una villa.
Il periodo della dinastia Flavia rappresenta un momento di stabilità politica e di equilibrata amministrazione nella storia dell'Impero Romano.